S.Martino: un paese e un Santo
Giuseppe Licopoli, reduce di Cefalonia
La strage dei nazisti nelle isole greche richiama alla memoria, non soltanto per analogia, l'eccidio perpetrato oltre 15 secoli or sono nel medesimo territorio.
Nel 480 a.C., infatti, presso le Termopili, un migliaio di greci, tra cui 300 spartani guidati da Leonida, caddero eroicamente combattendo contro i persiani. Il loro sacrificio non fu vano, in quanto consentì ai greci di riorganizzarsi e poi sconfiggere l'esercito nemico a Salamina.
Sul luogo della battaglia è stata rinvenuta una stele di pietra che riporta un'epigrafe attribuita al poeta lirico Simònide:
- O passeggero, annuncia agli Spartani che qui
noi perimmo obbedienti al loro comando.
E' proprio vero: Historia magistra vitae.
Sempre in Grecia, nella tragedia dell'armistizio dell'8 settembre 1943, tra l'Italia e gli Alleati, si consumò l'eccidio della divisione Acqui che presidiava l'isola di Cefalonia agli ordini del generale Antonio Gandin e quella di Corfù (dov'era di stanza il 17° fanteria). In tale data, le nostre forze di occupazione nei Balcani contavano circa 650.000 uomini con scarso supporto aereo e navale.
La crisi delle nostre truppe, una trentina di divisioni logorate da due anni e mezzo, senza possibilità di movimento e nell'attesa passiva degli attacchi tedeschi, era aggravata dall'assoluta mancanza di ordini.
Esperti colonnelli e valorosi generali, educati a un'equanime obbedienza, si trovarono a decidere senza indugio se aprire il fuoco sui tedeschi, fino a poco prima amici, oppure cedere e arrendersi.
L'8 settembre la divisione Acqui si trovò con viveri sufficienti per 90 giorni e munizioni per 30. E mentre in patria le sorti erano mutate e due milioni di soldati facevano ritorno a casa, nell'isola greca si presentava una scelta brutale e gli ordini, anche se fossero giunti, sarebbero stati di resa.
In tal caso, comunque, si registrano opinioni controverse.
Risulta che a Cefalonia il generale Carlo Vecchiarelli (comandante dell'XI Armata, di cui faceva parte la Acqui) aveva prescritto la consegna delle armi, per la quale pare propendessero i sette cappellani militari. Ma i diecimila soldati, interpellati dall'intrepido veneto Gandin dichiararono l'animosa volontà di resistere. Altri colleghi del generale vissero la stessa situazione arrendendosi subito o collaborando con quei germanici, quando non furono travolti.
Le unità tedesche erano appena 1800, ma efficienti e mobili, con un forte appoggio aereo e avevano bisogno di qualche tempo per operare concentrazioni di forze. I nostri, invece, oltre alla superiorità numerica, contavano sulla vicinanza di Brindisi, dove già si era insediato il governo di Badoglio. Si proseguì con le trattative fino al 12 settembre, nel mentre i tedeschi predisponevano armi pesanti a Cefalonia.
All'alba del 13 il capitano Renzo Apollonio notò due grossi pontoni da sbarco che doppiavano il Capo San Teodoro e diede ordine alle sue batterie di aprire il fuoco. Ebbe, così, inizio la battaglia. I messaggi radio che i nostri inviarono per Brindisi vennero disattesi e le richieste di soccorso fallirono.
Il 14 settembre il generale Gandin chiuse le trattative con la nota frase, testimoniata dai sopravvissuti (in quanto la documentazione scritta andò distrutta): «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli ufficiali e dei soldati, la divisione Acqui non cede le armi».
Se si fosse arresa sarebbe stata deportata in Germania come tante altre. L'intrepido Gandin aveva subito capito che, dopo l'armistizio, i tedeschi sarebbero stati i nostri avversari. Non fu, perciò, contestato il suo rifiuto di obbedienza.
Hanno scritto Montanelli e Cervi: «Fino al 22 settembre durarono, a Cefalonia, i combattimenti, con interventi pesanti degli Stukas che mitragliavano e bombardavano le posizioni italiane. Il 24 settembre Gandin fu catturato e fucilato nella schiena: prima di morire buttò a terra con sdegno la Croce di ferro che Keitel gli aveva concesso. La strage fu orrenda. In una scuola 600 soldati e ufficiali vennero falciati a raffiche di mitragliatrice, 360 ufficiali furono giustiziati a gruppetti. Un sottotenente andò alla morte canticchiando la canzone del Piave, un colonnello con la pipa in bocca, tranquillamente. Cinquemila furono i massacrati della vendetta tedesca, 1.200 i caduti in combattimento. Ad aggravare il bilancio della tragedia sopravvenne l'affondamento, per mine, di piroscafi che avrebbero dovuto trasportare i superstiti nei lager tedeschi. Altri tremila morti, in tutto 9.646. Il 25 settembre si arrese anche il presidio di Corfù, che pure nella fase iniziale degli scontri aveva catturato 400 prigionieri tedeschi». (Da: L'Italia della guerra civile - Rizzoli, 1983).
Il nostro contributo
Anche il nostro paese ha generosamente contribuito alla rinascita della Patria con immani sacrifici e copioso spargimento di sangue.
Sia nel 1915/18 che nel secondo conflitto mondiale i nostri concittadini si sono dimostrati fedeli al giuramento e incuranti di ogni pericolo.
In altra occasione abbiamo rievocato il sacrificio dei sammartinesi, come quello compiuto da Salvatore Carrozza, trucidato dai tedeschi all'alba del 18 aprile 1944 in un Comune di Parma. L'ultimo suo grido, nel momento dell'ordine di "Fuoco" fu veramente profetico: «L'Italia vivrà!». Di lui si è scritto:
«Salvatore Carrozza, umilissimo figlio del Sud, uno dei tanti richiamati pronti ad ogni sacrificio, bloccato qui al Nord con l'8 settembre per non rivedere più la sua S. Martino, aveva sempre dimostrato a quelli che con lui avevano diviso ogni rischio e sofferenza fermissimo patriottismo».
Come già rilevato, alcuni mesi prima dell'episodio di Carrozza, in terra ellenica si era perpetrato il massacro dei nostri militari.
Fra i pochi scampati, l'allora ventenne Giuseppe Licòpoli, che il 26 febbraio 2008 ha fornito la sua esemplare testimonianza durante l'incontro «Cefalonia 1943 - Viva la libertà», tenutosi presso i locali della Scuola Media di S. Martino (RC), ha impresso il nome del nostro paese nell'albo della memoria nazionale.
Cresciuto in un ambiente di autentici valori morali, il nostro Peppino ha vissuto coraggiosamente la dolorosa esperienza greca, accettando con convinzione gli ordini superiori a difesa della giustizia e della libertà.
Cefalonia, con la sua brutale scelta di arrendersi o combattere, è una prova indiscussa che nei momenti difficili è preferibile andar incontro alla morte piuttosto che cedere a vili ricatti.
Ai caduti per la nobile causa della patria si sono ispirati artisti e poeti.
Nessuno rimane indifferente al suggestivo richiamo di Leopardi:
-
Oh misero colui che in guerra è spento,
non per li patrii lidi e per la pia
consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui
per altra gente, e non può dir morendo:
alma terra natia,
la vita che mi desti ecco ti rendo.
Non dimentichiamo che patria vuol dire "terra dei padri" e che se un nemico la calpesta occorre difenderla, stroncando ogni tentativo di asservimento.
Affinché la morte di tanti nostri combattenti e il sacrificio di altri non siano stati inutili, occorre dare fama di prestigio e di onestà alla nostra Terra nel modo in cui ha operato il nostro Peppino al quale esprimiamo la nostra gratitudine.
Dal racconto della sua esperienza traspare la sua figura semplice e sincera di cittadino onesto e coraggioso che ha preferito il bene comune a quello personale. Grazie anche al suo contributo, come auspicato dal Manzoni, oggi l'Italia non è più sotto il dominio di Francesi, Spagnoli o Tedeschi, ma risulta unita dalle Alpi al mare sia nelle istituzioni militari che nei sentimenti:
-
una d'arme, di lingua, d'altare,
di memorie, di sangue, di cor.
Incontro: Cefalonia 1943 - "Viva la libertà" - I relatori (da sx) Professori: Antonio Zirino, Antonio Floccari, Domenico Caruso e Michele Ferraro. (Foto Associazione "Castello Onlus")